Non temerò alcun spoiler

Gli spoiler sono una delle più fastidiose piaghe dell’era di Internet. Oggigiorno è difficile aggirarsi per la Rete in cerca di informazioni in merito a una qualunque opera di narrativa (libro, film, fumetto, videogioco) senza imbattersi inavvertitamente in post, commenti e recensioni che contengono dettagli rilevanti della trama, in grado di rovinare (spoil) la lettura/visione/gioco, togliendo il piacere della scoperta all’ignaro lettore/spettatore/giocatore.

I più coscienziosi si premurano di piazzare degli SPOILER ALERT ben evidenti, in modo che chi vuole evitare le anticipazioni possa accuratamente passare oltre. Ma per ognuno di questi utenti educati del web ci sono decine di troll che si divertono espressamente a spoilerare le trame, in particolare per le serie tv più in voga del momento.

Uno dei peggiori spoiler che ho subito in vita mia è stato quello della scena finale della terza stagione di Lost. Non sto a descrivere la cosa (anche per evitare spoiler, beninteso), ma quella breve sequenza è un punto di svolta fondamentale in una serie che per giudizio unanime ha segnato la storia della televisione. E io, leggendo qua e là commenti e impressioni prima della visione dell’episodio, mi sono trovato sotto gli occhi una singola frase che rivelava come in quella puntata Jack in realtà…

Si potrebbe pensare che a quel punto avrei dovuto smettere di guardare Lost. Senza poter godere del ribaltamento epocale in una serie che pure dei misteri e colpi di scena ha fatto il suo ingrediente principale, che ci stavo a fare davanti alla tv, a guardare un episodio che sapevo già come sarebbe finito? Invece ho continuato a guardarlo e, giudizi sulla serie (e in particolare sulla sesta stagione) a parte, posso ritenermi comunque soddisfatto.

Allora forse non lo avevo ancora capito, ma col tempo mi sono accorto di una cosa. Quello che ho scritto all’inizio, che gli spoiler rovinano la fruizione di un’opera (per usare un termine generico che comprende tutti i tipi di narrazione possibili), non è vero. Dirò qualcosa di sconvolgente per i più, ma la realtà è questa: gli spoiler non esistono.

Ok, ho esagerato. Gli spoiler per come sono definiti esistono, e sono antipatici, questo non si può negare. Ma la pericolosità dello spoiler è largamente sopravvalutata. Dire che uno spoiler rende inutile la fruizione, e che una volta subìto si può tranquillamente abbandonare l’opera, equivale ad affermare che non c’è niente, al di là della mera sequenza di eventi della storia, che valga la pena di essere seguito. Che quindi una semplice cronistoria di ciò che accade può bastare a riassumere il tutto.

In realtà, quando si legge/guarda/gioca, la trama che seguiamo è certamente importante, ma non è l’unico elemento che interessa, e spesso non è nemmeno quello centrale. Ci sono un’infinità di altre sfaccettature che arricchiscono l’opera, e rendono la sua fruizione un’esperienza memorabile: mescolando tutto in unico calderone, possiamo ricercare e amare nell’opera un particolare stile, musica, atmosfera, regia, immersività, empatia, interpretazione… la lista è davvero infinita. Tutti questi elementi concorrono a suscitare un certo tipo di emozioni, che il semplice snodarsi della storia, di per sé, non possiede.

È per questo che rileggiamo i libri. È per questo che riguardiamo i film, anzi a volte singole scene, ancora e ancora. È per questo che pur sapendo già che sarebbe successo, ho avuto i brividi quando ho sentito Jack Shepard gridare “We have to go back!”.

Certo ci sono delle opere in cui la storia in sé è fondamentale, e io stesso mi oriento quasi sempre su libri e film estremamente plot-driven, ma ci sono poi altri elementi che intervengono nel formare il mio rapporto con l’opera, al punto che la storia passa quasi in secondo piano. Si potrebbe obiettare che ci sono dei generi particolari in cui lo spoiler è particolarmente devastante: un giallo o un thriller, dove si insegue il classico “chi è l’assassino”, vengono letteralmente svuotati del loro significati se sappiamo in anticipo la risposta, no?

No. Ed ecco un ottimo controesempio: conoscete Colombo, la celebre serie poliziesca interpretata da Peter Falk? In ogni puntata di Colombo, la prima sequenza consiste nell’esecuzione dell’omicidio da parte di un personaggio che quasi sempre si vede chiaramente in volto. Per tutto il resto dell’episodio, lo spettatore sa bene chi e come ha commesso l’omicidio, ma il divertimento sta nel capire come Colombo arriverà a scoprirlo e smascherarlo. Questo meccanismo, con le dovute proporzioni, si può applicare a tutte le storie del genere. Per quanto l’identità dell’assassino (o comunque, l’entità del mistero) possa essere importante, non sarà mai determinante nel definire il valore complessivo dell’opera.

Che poi è un lungo giro di parole per dire che non conta la meta, ma il viaggio. Oppure, in alcuni casi, non contano le risposte, ma le domande.

Ecco cosa intendevo quando ho detto che gli spoiler non esistono. Dirò di più: un’opera che può essere seriamente spoilerata, ovvero che perde il suo significato se la trama è nota in anticipo, è un’opera senza valore. Perché vuol dire che non ha niente da dire, se non riportare una successione di eventi. E chi mai si è appassionato alla tabellina con il riepilogo delle date salienti che si trovava all’inizio di ogni capitolo del libro di storia?

Non abbiate paura degli spoiler. Non sono vostri nemici, anzi, vi aiuteranno a distinguere ciò che davvero merita di essere letto/visto/giocato/fruito. Seguite il corso degli spoiler, e troverete delle grandi sorprese.

Ma forse, questa cosa avreste voluto scoprirla da soli. Forse avrei dovuto mettere uno SPOILER ALERT in cima al post…

Coppi Night 18/10/2015 - Jeepers Creepers

Io credo di aver già visto questo film. In un'altra epoca, quando guardare film horror era una sorta di prova di coraggio da raccontare poi agli amici e di cui vantarsi con le pischelline. Credo che questo anzi fosse un film che all'epoca, madò, oh, questo lo devi proprio vedere eh, è roba peeeesa! Non sono sicurissimo, ma ci sono un paio di scene che sento di aver già visto, quindi penso che sia così.

E quindi, non so. Non so se a fare la differenza è proprio l'età, o forse il fatto che la sensibilità del pubblico muta fisiologicamente nel tempo, e ciò che funziona oggi non funzionerà tra vent'anni. In parte sicuramente è vero, ma poi capita che rivedi un film come Jumanji ed è ancora fenomenale. Forse l'horror soffre di più del passaggio del tempo? O forse sono i film superficiali e ottusi ad accusarne.

A essere onesto non posso nemmeno fare un commento organico, perché ho dormito per una mezz'ora buona nella parte finale, quella, presumo più "intensa", in cui avveniva il confronto diretto col mostro. Ma non me ne rammarico poi tanto. Perché questo film è, in buona sostanza, una raccolta di cliché odiosi e frustranti, quelli che sono così abilmente ripercorsi in Quella casa nel bosco. È il tipico film in cui lo spettatore si trova a urlare verso lo schermo: "Ma che stai facendo? Ma scappa di lì!!!" perché quella è l'unica condotta ragionevole che qualunque persona nel mondo adotterebbe, quando ti infili in un tubo che finisce sottoterra in cui hai appena visto buttare giù un cadavere e finisci in un cazzo di sotterraneo tappezzato di cadaveri dopo che ti hanno inseguito e speronato in strada e hai riconosciuto qualcuno che riconoscevi ed è morto in un incidente stradale e sei a 40 chilometri dal più vicino centro civilizzato! Gesussanto, i due fratelli protagonisti di questa storia ripetono in media una volta ogni sei minuti "Dobbiamo andarcene" ma poi rimangono, e continuano a infilarsi nelle situazioni più pericolose possibili invece di girare il culo e lasciare che se ne occupi qualcun altro, tanto più che hanno pure chiamato la polizia.

Un film moscio, con protagonisti insopportabili ai quali auguri la più atroce delle fini, un villain senza spessore e dalle capacità non identificate, tante chiacchiere e nemmeno il gusto dello splatter più frivolo. Bocciato sotto ogni punto di vista, quindi mi scuso con i compagni di seconda media coi quali mi vantavo di averlo visto, adesso che siamo grandi possiamo confessare che ci ha fatto schifo a tutti, ok?

Doctor Who 9x06 - The Woman Who Lived

Non era facile, bisogna riconoscerlo. Competere con The Girl Who Died, prequel indiretto di questo episodio, e che è probabilmente l'episodio migliore degli ultimi anni, non era affatto facile. Ci ha provato, l'autore di questa puntata (che non è lo stesso Jamie Mathieson della prima parte), ma non ci è riuscito in pieno. Certo, l'arco narrativo di Ahsildr (o come ora si fa chiamare, Me) si è chiuso, ma per il resto la puntata non ha brillato.

Una particolarità che si nota subito in questo episodio è che il Dottore è da solo. Clara è per i fatti suoi, e lui si dedica a cercare un antico artefatto alieno (diciamo pure un amuleto magico) che, putacaso, anche Me sta cercando, con metodi e obiettivi diversi. Il loro incontro è casuale, ma si scopre che il Dottore l'ha tenuta d'occhio, perché sa alcune delle cose che la ragazzina, resa immortale dalla tecnologia dei Mire, ha compiuto nel corso dei secoli (circa otto ne sono passati per lei dal loro primo incontro). Il Dottore sapeva di non poter sfuggire a questo incontro, ed è quindi l'occasione per testare l'esito della sua azzardata manovra di resurrezione della bambina. Ma Ashildr è cambiata, non è più Ahsildr, e ottocento anni di perdite e solitudine le pesano addosso, anche se da fuori non si direbbe. Il Dottore vorrebbe riportare indietro la piccola vichinga che ha salvato, ma lei è ostinata e sa rispondere alle sue osservazioni con precisione e acume.

La parte più interessante dell'episodio è costituita proprio dai dialoghi, alcuni burrascosi, altri più morbidi, tra il Dottore e Me. Si apprendono diverse cose su entrambi, da quello che si dicono. I due sembrano conoscersi, o almeno conoscere cosa si prova a sopravvivere, a superare, a dimenticare. È questa una delle parti più strazianti della storia di Me, il fatto che la sua memoria sia limitata alle normali capacità umane, e per lei sia difficile ricordare. Anche i diari che ha scritto per anni e anni a volte non bastano, e altre sono appositamente distrutti perché è meglio non ricordare. Il Dottore forse non soffre lo stesso problema, le sue abilità mnemoniche da Time Lord sono decisamente superiori, ma comprende comunque cosa tutto questo ha comportato per Me, perché anche lui sopravvive, prosegue oltre, e a volte sceglie di dimenticare. Il loro è un confronto quasi alla pari, e quando alla fine dell'episodio Me (forse a quel punto è un po' più Ashildr) fa pace con il Dottore, non si limita a dirgli "avevi ragione", ma gli fa capire che anche lei può trovare un senso alla sua lunga vita, che non è lo stesso di lui.

Una delle cose più importanti che impariamo è il bisogno dei companion umani. Più volte Me chiede al Dottore di portarla con lui, ma lui rifiuta. Alla fine ce lo spiega: ha bisogno delle mayflies (da noi non sono così noti, ma il concetto è piccoli insetti che vivono poche settimane) per mantenere la sua prospettiva vicina a ciò che conta, e non finire per ignorare quelle creature per altri versi immensamente inferiori a lui. Come diceva anche in The Girl Who Died, il Dottore teoricamente potrebbe fare qualunque cosa, e sarebbe facile dall'alto delle sue infinite possibilità perdere di vista le piccole vite delle persone qualsiasi. Ma ciò non toglie che anche lui deve passare oltre, e quando Clara, nella sua breve comparsa nell'epilogo dell'episodio, dice "Io non vado da nessuna parte", lo sguardo di lui è abbastanza eloquente: anche lei se ne andrà, e verrà lasciata indietro, come è successo a tutti gli altri.

Quello che non funziona in questa puntata è tutta la parte della caccia, e l'alieno leonino in cerca del medaglione che sfrutta la "forza vitale" (eddai!) per aprire portali dimensionali. Il trucco sarà pure eccezionale, ma il personaggio è ottuso e moscio, e come villain non vale decisamente nulla. La parte centrale dell'episodio è tutta incentrata su di lui, e anche se rimane un meccanismo per mostare le motivazioni e far evolvere il personaggio di Me, rimane comunque di scarso interesse.

Un'altra cosa che avrei gradito fosse spiegata meglio è l'età di Me. Chiaramente non è invecchiata dall'episodio precedente, e nonostante appaia come una ragazzina qui viene da tutti trattata come adulta. Lei stessa dice di aver avuto dei figli e le vengono anche rivolte un paio di battute maliziose. Ora, io non so quanti anni abbia davvero Maisie Williams, ma a me sembra tuttora una bambina. Forse anche a quarant'anni non perderà mai quell'aspetto infantile, ma se non è cresciuta da The Girl Who Died, vuol dire che già allora era abbastanza matura da poter concepire? E se invece è cresciuta, perché è rimasta del tutto uguale? Sarebbe bastata una frase buttata a caso, qualche technobabble del tipo: "il suo corpo cresce dentro ma la tecnologia aliena la mantiene uguale a come era". Insomma mi sembra che questo aspetto non irrilevante sia stato sorvolato senza nemmeno farci caso (anche lo "woman" del titolo è azzardato, secondo me).

Un dettaglio che invece va di nuovo ad aggiungere merito a questa stagione è la menzione di Jack Harkness da parte del Dottore. E non solo perché fa piacere sentirlo nominare, ma perché di nuovo è stata stabilita una continuità con le stagioni precedenti a Matt Smith: abbiamo visto il collegamento alla quarta serie, e sono state nominate Rose e Martha. In questo senso il Decimo Dottore era rimasto molto isolato rispetto al suo passato, sembrava essere quasi ripartito da capo, mentre ora sembra che lo show sia più pronto ad ammettere che c'è stato anche altro, ancora prima.

Alla fine The Woman Who Lived è comunque un buon episodio, che riesce a toccare argomenti profondi e si incastra bene nel filo narrativo di questa stagione, contribuendo a fare del Dodicesimo Dottore un personaggio con un'identità ben definita (cosa che nella stagione precedente era un po' mancata). Purtroppo il leone spaziale rovina l'equilibrio e fa perdere alcuni punti, per cui non posso assegnargli più di un voto: 6.5/10

Non di solo pane + AMI 2015

Doppia segnalazione che forse arriva con leggero ritardo, ma ho preferito aspettare per mettere insieme le due notizie collegate. Da anni sono un affezionato partecipante del Trofeo RiLL, e pressappoco a edizioni alterne riesco a rientrare tra i finalisti o guadagnarmi una nicchia nella raccolta grazie al concorso parallelo SFIDA. L'ultima volta è stato nel 2013 (appunto, due anni fa) con l'inclusione del mio racconto su Majorana/Marconi/Tesla in Perché nulla vada perduto. Quest'anno RiLL ha ripristinato l'edizione digitale che include tutti i finalisti del concorso, pertanto mi trovo in entrambe le pubblicazioni.

Non di solo pane e altri racconti è l'antologia ufficiale del XXI Trofeo RiLL. Contiene i primi 5 racconti classificati (il primo dei quali dà il titolo al volume), che però non includono il mio racconto finalista Lamarckia.

Il libro è suddiviso in tre sezioni: i migliori 5 racconti del concorso, 5 racconti tratti da altrettanti concorsi di genere fantastico di tutta Europa (e che compaiono qui per la prima volta in italiano), e i migliori 5 racconti di SFIDA, il concorso parallelo riservato ai finalisti delle precedenti edizoni del RiLL. Ed è proprio attraverso quest'ultimo che sono comunque presente in Non di solo pane, con un racconto scritto diverso tempo fa (oddio, penso fosse il 2008-2009) intitolato Karma. Una breve storia di amore e ossessione e reincarnazione (forse).




Ma come dicevo, da quest'anno dopo una pausa dovuta a questioni logistiche, RiLL ha ripreso a pubblicare in formato elettronico tutti i finalisti del Trofeo, al di là di quelli che riescono a entrare nel libro cartaceo. Così per recuperare, in Aspettando Mondi Incantati 2015 non sono presenti solo i 10 finalisti della XXI edizione, ma anche quelli della XX e XIX, per un totale quidi di trenta racconti!

Potete quindi trovare qui dentro (a un prezzo ragionevolissimo vista la quantità di materiale) il mio Lamarckia, che appunto era tra i finalisti di quest'ultima edizione ma non si è classificato tra i 5 inclusi nel libro. Lamarckia, come si potrebbe dedurre dal titolo, ha qualcosa a che fare con l'evoluzione (strano, non ne parlo mai, eh?), ma anche con l'autodeterminazione e il rapporto tra le generazioni. Qualche riga di commento al racconto da parte dei giurati la potete leggere qui.



La premiazione del Trofeo RiLL si svolgerà all'interno del Lucca Comics & Games, venerdì 30 ottobre alle ore 16. Io non sarò direttamente coinvolto nella premiazione ma sarò comunque presente, quindi per chi fosse a Lucca potremo incontrarci lì. Segnalo anche che nella stessa occasione sarà presentato anche Oscure Regioni vol. 2, la seconda parte dei racconti horror dedicati ai miti e al folklore delle Regioni italiane scritti da Luigi Musolino, libro che dovreste bramare (qui le mie impressioni sul primo volume).

Doctor Who 9x05 - The Girl Who Died

Uhm, da dove iniziamo a parlare di questa puntata? Perché diamine, è una di quelle in cui ci sono davero tanti aspetti da dover toccare che boh, non so bene come affrontarli tutti. Prendiamola alla larga e partiamo allora da un argomento off-screen. L'episodio è stato scritto da Jamie Mathieson (insieme a Moffat, ma quest'ultimo probabilmente ci ha messo le mani solo per un paio di aspetti), autore di due degli episodi più interessanti di una stagione 8 che è risultata mediamente mediocre: Mummy on the Orient Express e Flatline. Peraltro scopro anche che sempre lui ha scritto anche un episodio della sfortunata ma meritevole serie Dirk Gently. Quindi si potrebbe quasi pensare che l'autore della storia non sia un aspetto secondario nel determinarne la qualità, e in Doctor Who è facile accorgersene visto che è una delle poche serie a mettere il nome dello screenwriter proprio sotto il titolo di apertura.

Stabilito questo, passiamo a qualcosa che non si è visto in The Girl Who Died. Quando le prime news sulla stagione 9 sono iniziate a circolare, e si è scoperto che tra le guest star ci sarebbe stata Maisie Williams (meglio nota come Arya Stark di Game of Thrones) ci sono subito state ipotesi sul ruolo che avrebbe ricoperto, anche esaltate dal fatto che nel primo trailer la si vedeva dire al Dottore: "Perché ci hai messo tanto?", dando ad intendere che lo conoscesse già. Molti avevano puntato su Susan Foreman, la nipote del Dottore che lo accompagnava all'inizio del suo viaggio (inizio inizio intendo, ai tempi del Primo Dottore), e altri pensavano che potesse essere un altro personaggio proveniente dal passato del Dottore (anche la serie classica). Ashildr in realtà non è niente di tutto questo: è solo una giovane abitante del villaggio vichingo in cui il Dottore e Clara sono capitati pressoché per caso. Quindi nessun collegamento precedente, ma... un probabile collegamento successivo e/o retroattivo.

Il villaggio di Ashildr viene visitato dai Mire, una razza aliena che miete tutti i guerrieri e ne estrae un pratico succo concentrato di testosterone, perché mangiare il cuore degli avversari è sempre stato il metodo migliore di assorbirne la forza, anche nelle altre Galassie. I Mire sarebbero contenti così, ma è proprio Ashildr a sfidarli e allora si può solo combattere. Il Dottore cerca di frenare gli entusiasmi: la prospettiva di una morte con onore non è così auspicabile come sembra. "Un bambino muore con onore?" chiede agli altri. Ma è proprio un bambino, anzi un neonato (come già sappiamo, il Dottore "parla bebè"), a convincerlo a rimanere e occuparsi di loro. A quel punto la soluzione più immediata è addestrare al combattimento contadini e maniscalchi rimasti al villaggio, ma è presto evidente che non è la strategia migliore. Bisogna quindi trovare una soluzione alternativa, che non preveda lo scontro diretto coi Mire, che è chiaramente impossibile da vincere.

E la soluzione, al di là dell'utilizzo delle anguille elettriche (questo forse è l'unico aspetto un po' stiracchiato dell'episodio), viene di nuovo da Ashildr. Perché la bambina ha anche un talento, che forse non è niente di eccezionale e niente di ultraterreno, ma è sufficiente: la capacità di inventare delle storie. Così basta che Ashildr usi la sua immaginazione (insieme a qualche amennicolo sottratto agli alieni) per ingannare i Mire e costringerli alla fuga con la coda tra le gambe. Non è la prima volta che la forza delle storie assume un significato centrale in Doctor Who, e di solito accade sempre in episodi molto intensi (ad esempio in The Angels Take Manhattan, o Silence in the Library).

Quando poi Ashildr muore imprevedibilmente per l'utilizzo del macchinario alieno, il Dottore si confronta di nuovo con il suo antico dilemma: il modo in cui manipola le persone, le vittime che si lascia dietro, la sua abituale fuga. In questo caso il dramma è più forte del solito, forse perché Ashildr è una outcast, e proprio perché il suo ruolo è interamente positivo, creativo, ma ciò nonostante rimane coinvolta. Ed è allora che il Dottore si guarda allo specchio, letteralmente, e capisce qualcosa che stava cercando di afferrare fin dal suo esordio in Deep Breath. Il collegamento è direttamente all'episodio The Fires of Pompeii della quarta stagione, quello in cui appunto Peter Capaldi appariva come personaggio secondario, il pater familias che il Dottore decide di salvare, contravvenendo alle regole: "Salva almeno qualcuno" gli aveva chiesto lei, come rivediamo in un breve flashback. E il Dottore lo ha fatto davvero, e così, due rigenerazioni dopo, decide (inconsciamente) di assumere quel volto, per ricordarsi che lui salva le persone. In effetti fin da quando si era stabilito che il volto del Dodicesimo aveva una giustificazione, avevo pensato che il collegamento fosse proprio a quella scena in cui il Dottore aveva scelto di opporsi alle sue regole, e andare contro quella che è la storia già scritta.

Questo tema delle regole sembra ricorrere già dall'episodio precedente: in Before the Flood il Fisher King accusa il Dottore di non avere il coraggio di contravvenire alle regole che i Time Lord si impongono. Ma per Ashildr le cose cambiano, e nella sua dichiarazione sembra di rivedere qualcosa di quel Time Lord Victorius che il Decimo (sempre Tennant) si era autoproclamato, poco prima della fine del suo tempo. Vedremo se le conseguenze saranno simili, o se le maree temporali rimetteranno il Dottore sulla strada ordinaria.

Certo è che già in quest'occasione si pente molto presto di essere intervenuto quando non avrebbe dovuto: perché per salvare Ashildr, l'ha resa immortale. E il Dottore sa bene che essere immortali non è una benedizione, perché implica sopravvivere a tutti coloro che ami. E Ashildr, che in quel piccolo villaggio in cui è nata ha tutto, come può sopportare l'eternità? È chiaro che qualcosa cambia in lei, lo si vede nella sua espressione che passa dalla gioia, al dolore a... l'odio? La ragazzina (che sarà per sempre una ragazzina) sa a chi deve quella sua tortura, ed è questo che scopriremo in The Woman Who Lived. Tecnicamente quindi i due episodi non sono un'unica storia, ma il collegamento è proprio Ashildr.

Altri due temi emersi, come semplici accenni, ma forse da non sottovalutare, soprattutto perché stanno diventando ricorrenti, sono l'evoluzione di Clara e l'ibrido. Il Dottore si rivolge di nuovo a Clara facendole notare quanto è cambiata e quanto sia pronta allo scontro e al più spietato cinismo. Si inizia a delineare un contesto che potrebbe portare al cambio di companion: sarà forse il Dottore a giudicarla non più adatta a seguirlo? È vero che in passato il Dottore si è accompagnato con individui non proprio immacolati (Leela, compagna del Quarto, era sempre pronta a sfoderare il pugnale e tagliare gole), ma già nella stagione precedente questo Dottore ha espresso il suo disgusto per i soldati. Per quanto riguarda l'ibrido invece, è stato Davros a nominarlo in The Witch's Familiar, come la ragione per cui il Dottore è fuggito da Gallifrey, e adesso lui sembra considerare che Ashildr sia proprio questo: un umano con parti aliene. In effetti non credo che sia lei l'oggetto della "profezia" (che brutta parola) di Gallifrey, ma probabilmente il richiamo serve a far notare come il Dottore sia attento (almeno adesso) a questo argomento.

Per concludere, perché a questo punto ho scritto davvero troppo, The Girl Who Died è un episodio efficace sotto molti punti di vista. La storia, i temi, i sottintesi, i richiami. Il finale. E questo episodio si colloca dopo una serie di altri episodi di buon livello che mi stanno portando a pensare che qusta nona stagione sia davvero una delle migliori da diversi anni a questa parte. Voto: 9/10

Report Stranimondi

Lo sapete che normalmente non occupo lo spazio del blog per parlare di come sono andati gli eventi in cui presento i miei libri. Per cui dopo le prime volte (la prima presentazione di Spore e la prima di DTS) ho evitato di raccontare come è andata, semplicemente perché non credo possa essere così interessante, tanto per i presenti che per gli assenti. Nel caso di Stranimondi voglio però fare un'eccezione. L'eccezione è giusitificata dal fatto che Stranimondi è stata la prima convention (se così si può chiamare) in cui mi sono sentito completamente coinvolto, a mio agio, stimolato, divertito... e distrutto, ma questo è un altro discorso.

Non sto a fare la cronistoria di cosa ho fatto di ora in ora nel corso dei due giorni interi della manifestazione. Di cose da fare, vedere e seguire ce n'era fin troppe, e scegliere di assistere a una presentazione implicava necessariamente perdersi un panel, farsi un giro tra i banchetti significava perdersi l'ospite internazionale, per cui era materialmente impossibile stare dietro a tutto. Sta di fatto che io ho deciso per una condotta un po' atipica: ho scelto di dedicare il mio tempo a progetti piccoli e misconosciuti (ma magari anche freschi e innovativi), piuttosto che appoggiarmi alla sicurezza dei grandi nomi. Per dire, Bruce Sterling l'ho visto girare nella sala, ma non sono andato a sentirlo. Voglio dire, è vero che Sterling è Sterling, ma proprio perché so chi è/cosa fa, forse valeva la pena dare una chance a qualcuno di meno noto. Poi, ovviamente se ci fosse stato qualche mio idolo assoluto (chessò, metti un Neal Stephenson o un Ted Chiang) sarei rimasto incollato la sedia da due ore prima.

Comunque, alla fine non mi sono pentito di questa strategia, perché mi ha permesso di scoprire tante cose interessanti. E siccome non serve a nulla scoprire una cosa e tenersela per sé, lascio due righe per ognuna di queste (naturalmente senza un ordine particolare).

La rivista Parallàxis: ne avevo sentito parlare di sfuggita, ma non mi ero trovato in mano nessuno dei loro volumi. Già prima di sentirli parlare avevo già acquistato il n. 3 della rivista, catturato dalla foto in copertina decisamente uncanny. Quando poi ho assistito alla loro presentazione, con due ragazzi della redazione e Alessandro Forlani (autore del racconto M'Rara pubblicato sull'ultimo numero) ne sono rimasto completamente rapito. Il progetto, l'approccio, la cura e la filosofia che stanno dietro questa rivista sono di un livello altissimo. La scelta di affiancare narrativa di speculazione al new magical realism, le nuove traduzioni di autori storici (come Kafka), il ripescaggio nelle "pagine dimenticate" di vecchie opere (ad esempio i racconti di Giambattista Basile), il saggio in chiusura di ogni volume. Tutto grida passione, impegno, apertura, tutto diretto a quel twist in the mind che è il payoff della rivista. E constatare che tutto questo arriva da ragazzi che possono avere la mia età (ma probabilmente anche meno) è un grande sollievo.

Interessante e rivelatore è stato anche l'incontro con Francesco Verso. Ho già letto alcune cose di questo autore di spicco della sf italiana, anche se non ero rimasto del tutto soddisfatto (di fatto avevo stroncato E-Doll). Faccia a faccia abbiamo parlato serenamente di quel libro, ed è stato un piacere ricevere la sua dedica sincera sul suo romanzo Livido, che conto di leggere presto. Ma al di là dello scambio autore-lettore-autore, Verso ha anche presentato il lavoro della sua collana Future Fiction. E anche questa è stata una sorpresa. Sapevo già della vasta panoramica di autori di tutto il mondo (anche quelle zone "dimenticate" come Africa, Sudamerica, Est Europa) che la collana ha pubblicato di recente, ma sentirne parlare da parte sua, e vedere con che entusiasmo propone la biodiversità letteraria mi ha davvero estasiato. Scoprire poi che Future Fiction oltre alla narrativa, si occupa anche di audiolibri, spettacoli teatrali, concerti con theremin, tutti orientati al futuro, mi ha convinto in pieno del valore di questo progetto.

Tre le varie case editrici piccole e microscopiche che si sono divise lo spazio dei banchetti e delle presentazioni, mi sento di citare La Ponga. Delle loro pubblicazione ho già letto Cielo e ferro di Bonera/Frusca, ma finora non avevo avuto occasione di approfondire il loro catalogo e la loro mission. Anche qui una combinazione di gioventù, entusiasmo, professionalità e disillusione (nel senso positivo: gente coi piedi per terra che sa di muoversi in un settore con pochi margini di crescita). Peraltro credo che sia una delle poche CE ad avere in redazione un wrestler, che non è poco.

Ovviamente ci sarebbero molte altre menzioni di merito, ma davvero lo spazio non basterebbe. Tanti volti che sono finalmente riuscito ad associare a identità con cui da anni ci incontriamo negli stessi spazi (forum, social, concorsi ecc), tanti lettori appassionati e autori con cui io stesso sono cresciuto, Stranimondi è stata soprattutto un'occasione di aggregazione per tutti coloro che gravitano intorno a questo ambiente e forse non avevano mai avuto prima uno spazio tutto per loro per riunirsi. L'entusiasmo intorno alle bancarelle, le vendite straordinarie di tutti gli editori (non lo dico io, chiedete a loro), la partecipazione fitta agli eventi... tutti indizi che testimoniano il successo di questa iniziativa che è stata un po' una scommessa, ma si è rivelata azzeccata.

Ah, e poi, vabbè, ci sarebbe anche la presentazione di DTS che era prevista il sabato pomeriggio. L'ho lasciato per ultimo perché non volevo che fosse il nucleo del post, però due parole bisogna dirle. E beh... è stato eccezionale. Ci credete se dico sala piena, persone in piedi? Ma davvero è andata così (la foto qui accanto era prima ancora che cominciassimo, un paio di minuti dopo c'era ancora più gente!). Pubblico fitto e attento, equamente diviso tra chi ha già letto il libro e chi no, ospiti illustri (colleghi autori con un'esperienza ben superiore alla mia) e, per la prima volta, entrambi i miei mentori presenti: Giorgio Raffaelli e Marco Scarabelli, il corpo e l'anima di Zona42. Davvero non mi aspettavo (non ci aspettavamo) questa partecipazione e questa risposta, è stato sorprendente e gratificante oltre ogni aspettativa, perché vuol dire che forse ci stiamo muovendo nella direzione giusta. Quindi un grazie immenso a chi c'era ma anche a chi è passato a salutarci, chi ha acquistato il libro e chi si è fatto autografare una cartolina perché aveva già l'ebook. Devo tanto a ognuno di noi, e ricordarlo ogni tanto fa bene a entrambi.

Concludo citando il souvenir più ghiotto che mi sono riportato a casa. Sono rientrato con una decina di titoli buoni, ma gli altri spero non me ne vorranno se dichiaro come più prezioso la mia edizione limitata (666 copie) di Debbi la strana, dell'immenso (e peraltro piacevolissimo) Paolo Di Orazio, che ha arricchito il libro con un'illustrazione improvvisata, unica ed irripetibile, e decisamente creepy.

Insomma, se non si è capito, riassumo dicendo che è stato davvero bello. E spero di ripetere queste stesse parole l'anno prossimo. Appuntamento a Stranimondi 2!

Coppi Night 04/10/2015 - Jurassic World

Attenzione: qui stiamo parlando del terzo film con più incassi nella storia del cinema, quindi ci stiamo approcciando a qualcosa che nel bene o nel male ha fatto la storia. Teniamolo presente, tornerà utile a fine post. Se siete affezionati lettori di Unknown to Millions sapete che di questo film ho già parlato, ma in maniera tangente, esaminando più le tematiche e il messaggio di fondo che trasmette (in senso volontario o meno). Non avevo potuto evitare di vederlo, pur sapendo di andare incontro a una visione per lo più intollerabile, perché... vabbè, perché è un film sui dinosauri, o almeno così viene proposto. Quando poi il film è stato proposto all'interno del Coppi Club ho voluto rivederlo per capire se le mie impressioni iniziali potevano essere confermate o mi era sfuggito qualcosa.

Voglio provare a fare una cosa oggettiva: parlerò di JW limitandomi ad affrontarlo come prodotto di intrattenimento, come film da guardare e godersi in quanto storia coi DINOSAURI. Ignoriamo quindi il fatto che nel 2015 si è ignorata completamente l'evidenza scientifica (ancora incerta ai tempi del primo Jurassic Park) secondo cui buona parte dei dinosauri, e sicuramente i teropodi (tutti i bipedi carnivori) erano piumati, e si è proposta invece un'immagine dei dinosauri rettiliana che poteva essere valida ai primi del 900. Anzi, potremmo quasi dire che questo viene giusitificano nel film stesso, quando il dottor Wu (lo stesso del primo film) afferma esplicitamente "Non abbiamo mai voluto ricreare dinosauri veri, ma l'immagine che ci piaceva dei dinosauri". Concediamo quindi che i genetisti della Ingen siano così abili da non aver semplicemente clonato i dinosauri a partire da DNA fossilizzato (bisognerebbe anche capire quale zanzara possa aver punto un mosasauro), ma di averli volutamente modificati per assomigliare all'idea di dinosauro del pubblico. Al netto quindi delle improponibili ricostruzioni degli animali, com'è questo film?

Il responso (non solo mio, ma unanime anche per gli altri partecipanti alla Coppi Night) è: una schifezza. Questo film fatica davvero a catturare l'attenzione e affascinare lo spettatore, è pieno di incongruenze e sottotrame ridicole, e in ultima analisi, è sostanzialmente una noia infinita. Proviamo a fare una lista di quali aspetto non funzionano e lo rendono una storia mal riuscita e superficiale.
  • Ma chi è che crede ancora che mettere due ragazzini nel film come elemento di disturbo e vittime da salvare sia una buona idea? Peraltro due giovanotti di cui non ci interessa nulla, alle prese con un divorzio dei genitori di cui ci frega meno che nulla, e con qualche inquadratura che ci dimostra l'interesse del più grandicello per le ragazze che, santiddio, checcistaffare!? Metto questo punto per primo perché mi sembra davvero uno dei più gravi. Qualcuno sostiene che sia un tentativo di acchiappare meglio il pubblico dei giovani, ma siamo sicuri che ai ragazzi interessi vedere storie con protagonisti ragazzi? Io non ne sono così convinto, o almeno di certo non è questo il modo. La sensazione è che (come in molte altre occasioni), si sia voluto semplicemente creare un richiamo forzato a Jurassic Park, in modo da aumentare l'effetto-nostalgia.
  • Un altro punto notevole per la sua pochezza è che la storia si riduce essenzialmente alla caccia al mostro. Mentre nel primo film (e volendo, anche i successivi JP) c'era un discorso più incentrato sul uomo vs natura, qui non c'è altro: l'Indominus Rex è il cattivo e deve essere ucciso, fatto questo tutto torna a posto. Questo porta a un finale ridicolo degno di Sharknado, con il mostro che nello scontro finale viene ucciso a sorpresa da un deus ex machina sottomarino che non sa di sorpresa ma di parodia. Davvero, ma a chi è venuto in mente? Lo stesso Indominus passa così da avversario letale a macchietta.
  • Sempre parlando del monster of the week, c'è parecchia indeterminatezza su quali siano le sue effettive capacità. Un po' come nei film di (troppi) supereroi (vedi ad esempio Visione e Scarlet Witch in Age of Ultron), l'Indominus è ora mimetico (che poi, gesummio, c'è differenza tra mimetismo e invisibilità, e un cazzo di mostro di sedici metri per quanto bravo non è un insetto stecco, quando si muove farà un minimo di rumore), ora termosensibile, ora abbastanza intelligente da sapersi strappare il localizzatore. Tutte queste capacità emergono a seconda delle necessità del momento e non si ripresentano. Inoltre è caratterizzato in modo troppo cattivo: il fatto che uccida per sport gli altri dinosauri è eccessivo, ci manca solo che stupri gli animali prima di ammazzarli.
  • A proposito di cattivi, anche il ruolo del cattivo umano è poco credibile. Il tizio che pensa di addestrare i velociraptor per impiegarli come truppe d'assalto secondo me ha fatto male i conti. A mio avviso i costi per generare e addestrare un dinosauri sono notevolmente superiori a quelli di qualsiasi marine. E poi, ok, sarà pure un buon predatore, ma non credo che potrà mai imbracciare un fucile, e lanciato su un campo di battaglia cadrebbe di fronte al primo stronzo con un AK-47 in mano. Ma chi potrebbe mai finanziare un progetto del genere? Piuttosto dirottate i fondi sui droni d'assalto, tanto il costo sarà pressappoco lo stesso. Il mio timore è che questo sarà il punto da cui ripartiranno i già annunciati film successivi...
  • Parliamo dei due protagonisti. Devo dire che il personaggio dell'addestratore di raptor non è male, e il suo rapporto con gli animali è forse l'unico spunto che ritengo interessante nell'intero film. Ma quando da addestratore si trasforma in uomo d'azione con lanciamissili in mano perde credibilità. La donna in carriera che vede solo numeri e non capisce il valore della famiglia è troppo stereotipata per suscitare il minimo interessamento. Ma soprattutto il coinvolgimento sentimentale tra i due è talmente forzato, quando nel film stesso non si esprime nessuna chimica, e la scena finale in cui si vedono insieme contro il mondo non è solo melensa, è anche patetica.
  • Gli effetti speciali: possibile che i dinosauri ricostruiti nel 2015 appaiano più finti sullo schermo di quelli del 1993? Pensavo di no, ma mi sono dovuto ricredere.
  • Le incongruenze e i plot device inspiegabili si sprecano. Ne butto una manciata, ma siete invitati ad ampliare la lista a vostro piacimento. Non si può basare per due volte una svolta della trama sul fatto che la ricezione del telefono non permetta la comunicazione tra i personaggi, a maggior ragione considerando che ci si trova in un posto visitato da migliaia di persone ogni giorno e dove si suppone che i servizi siano di alto livello (te lo immagini se a Mirabilandia i telefoni non prendessero che file all'ufficio reclami?); un fiammifero non può accendersi pochi minuti dopo che ti sei lanciato da una cascata, così come non basta cambiare la batteria a una macchina ferma da vent'anni in mezzo alla giungla per farla partire; fare un recinto supersegreto per un nuovo animale supersegreto e superpericoloso con cancelli delle dimensioni dell'animale, invece che a dimensioni d'uomo, è da idioti (e come viene detto l'Indominus è nato e cresciuto lì, quindi non è mai stato fatto "entrare" [e a proposito, quanto ci ha messo quell'animale appena progettato per crescere alle dimensioni adulte, un paio di mesi?]); è impossibile che Jurassic World non abbia misure di sicurezza rigidissime, dopo il disastro di vent'anni prima di Jurassic Park: è già poco credibile che il progetto sia andato avanti e abbiano fatto costruire quel parco, dopo il risalto mediatico che l'incidente avrebbe avuto, ma se pure è stato possibile aprirlo davvero, non esiste che non ci siano procedure strettissime, infallibili e ridondanti per assicurarsi che niente del genere si ripeta mai più.
Credo che possa bastare a dare un'idea di quanto sia incredibile che questo film sia stato mal concepito e peggio diretto. Il fatto che sia il terzo campione di incassi ever non può che ricollegarsi quindi alla formidabile operazione nostalgia messa in moto per creare l'hype su Jurassic World. Se quindi c'è qualcosa da imparare da questo film, è solo una lezione di marketing. Ma per quella non c'è bisogno di vederlo.

Rapporto letture - Settembre 2015

Torniamo ai ritmi di lettura regolare dopo lo stress delle ferie. Mesata dedicata principalmente alla fantascienza ma con qualche contaminazione horror e fantasy.


Il primo libro letto è un classico, anzi, un vero antesignano di un genere. Edgar Rice Burroughs si può ritenere l'inventore del planetary romance, e le sue storie ambientate su Marte/Barsoom con protagonista John Carter. Narrativa di puro intrattenimento, questa, ma di grande efficacia. Una serie interminabile di avventure che iniziano nel momento in cui John Carter muore in una caverna dell'Arizona e si ritrova su Marte, pianeta perfettamente abitabile e popolato da più nazioni di umanoidi costantemente in guerra. Carter, che è un eroe perfetto (forte, intelligente, svelto, onorevole, onesto...) si impegna per portare i selvaggi di quel mondo (piuttosto simili ai selvaggi indiani che combatteva sulla Terra) a un livello maggiore di civilità, occupandosi en passant di salvare e conquistare la bella principessa. Ci sono alcuni sporadici sprazzi di speculazione scientifica, ad esempio per spiegare i canali marziani, ma in reltà il tutto si riconduce a un senso di scoperta e confronto con l'ignoto. In sostanza non si può parlare di letteratura "profonda", perché Burroughs non vuole dare altro che storie appassionanti da seguire, e questo gli riesce benissimo, anche a quasi un secolo dalla publicazione. Voto 7/10


Si passa poi a una fantascienza decisamente diversa, e più recente. Questo è il primo racconto che leggo di Aliette De Bodard, autrice che negli ultimi anni si sta facendo riconoscere in diversi premi. Anche Immersione ha vinto il Nebula nel 2012, grazie a una storia in cui su una stazione spaziale si assiste all'incontro tra due civiltà, entrambe umane, ma derivanti da tradizioni ben diverse e opposte. In questo contesto l'immersore è lo strumento che permette di integrarsi con le convenzioni dell'altro popolo, ma il suo uso comporta anche dei rischi notevoli, e sono questi che la protagonista realizza gradualmente. Il racconto è di sicuro interessante e scritto con uno stile morbido e adatto alle atmosfere, ma devo dire che per qualche ragione non mi è riuscito farmi coinvolgere in pieno. Mi ha dato come l'impressione che mancasse qualcosa, che la storia non fosse completamente chiusa. Sicuramente è un buon lavoro, ma non è riuscito a convincermi del tutto. Credo comunque che leggerò altro della De Bodard, perché probabilmente ho bisogno di prendere confidenza con il suo stile, come mi è avvenuto ad esempio con Dick e Lem. Voto: 6.5/10

Ancora qualcosa di contemporaneo e internazionale, anche se qui si parla di autori non propriamente noti, o almeno non come tali. Jeremy Scott è infatti uno youtuber, uno dei due autori del fortunato canale CinemaSins. Di The Ables in realtà ho già parlato in un post dedicato, mi limito quindi a riportare che si tratta di una storia di supereroi disabili, quindi piuttosto originale per gli standard del genere. Non è certo un capolavoro, ma una lettura piacevole. Per il commento più approfondito rimando al post già linkato. Riassumo il tutto con un voto: 7/10





Infine passiamo all'unico libro italiano letto questo mese. Alessandro Forlani è un nome che negli ultim annisi è conquistato una certa reputazione, grazie al Premio Urania e altri riconoscimenti, oltre a una consolidata serie di pubblicazioni con diversi editori. Ma Eleanor Cole delle Galassie Orientali è, per sua stessa ammissione, il lavoro più importante in cui si è cimentato, che serve da collegamento a molte sue opere precedenti e successive. La storia è ambientata in un futuro lontano (2600 e rotti) dove l'umanità ha colonizzato la Galassia, ma non tanto in nome della gloria e della conoscenza quanto del commercio. L'espansione infatti è guidata da una casta di "nobili di logo", ovvero grandi casate nobiliari che derivano dalle attuali multinazionali (i nomi sono proprio quelli: Nestlè, Farben, Shell, ecc). In tutto questo, su un remoto pianeta che sta emergendo dalla fase di sfruttamento minerario per passare alla commerceformazione, si manifesta qualcosa di impensabile e illogico: un negromante di nome Sarastro (capitato lì per sbaglio dopo una fuga dall'Italia di metà ottocento) occupa quel pianeta e da secoli lo ha corrotto fin sotto la crosta, sfruttando a proprio piacimento gli abitanti per generazioni. E quando dico "negromante" intendo proprio uno stregone, un uomo in possesso di poteri magici e in grado di manipolare forze oscure. Questo potrebbe sembrare un elemento dissonante in una storia ad ambientazione fantascientifica, e in effetti lo è, ma lo è per gli stessi personaggi del libro. Eleanor Cole, l'eroina, è un'antropologa, la cui missione è quella di studiare le diverse popolazioni della Galassia, e anche per lei la presenza e la sola esistenza del negromante è inaccettabile. Eppure lui è lì, e la sua influenza è fin troppo evidente. Come affrontare allora con gli strumenti della ragione e della scienza qualcosa che per sua natura esula da questi reami? Questo è il primo livello di lettura della storia, che contiene la parte più action, ma ci sono anche temi più profondi, sotto la crosta. Il motto "Umanità e commercio", la nobiltà di logo, l'ampollosità e la ricercatezza degli atteggiamenti di tutti i personaggi: tutti particolari che portano a un'interpretazione in chiave satirica della vicenda, in cui è facile ritrovare gli stessi temi gerontocratici che già ne I Senza-tempo e diversi altri racconti di Forlani si ritrovavano. Anzi, posso dire che se all'epoca del Premio Urania avevo qualche dubbio che si potesse classificare quel romanzo come fantascienza, alla luce di Eleanor Cole il discorso cambia: scienza e negromanzia sono due linguaggi opposti e inconciliabili (è interessante notare che i sortilegi di Sarastro non funzionano sulle macchine, o sugli umani troppo meccanicizzati), ma sono entrambi validi per interpretare la natura e l'universo. Il fatto che nella storia che conosciamo la scienza abbia prevalso non significa che sia essa il modo migliore e più potente. Con Eleanor Cole quindi l'intero universo narrativo di Forlani si compatta, e arriviamo alla definizione dei temi principali. Tutto questo senza considerare lo stile volutamente barocco con cui il testo è scritto, con una profonda ricerca linguistica che da una parte arricchisce e dall'altra caratterizza il romanzo. L'unico appunto che potrei fare (e vado nello spoiler) è che Sarastro alla fine non viene sconfitto, anzi sembra più che determinato a proseguire il suo stupro della Natura in un'epoca molto più interessante di quella che conosceva. C'è quindi materiale per proseguire la storia, quando forse avrei preferito che si concludesse. In ogni caso, questo non basta a squalificare il romanzo, che rimane una delle migliori opere di autori italiani lette in questo anno. Voto: 9/10

Doctor Who 9x04 - Before the Flood

Dopo averci lasciato in sospeso da Under the Lake con alcune domande e parecchia curiosità, in Before the Flood si tirano i fili della vicenda, con una puntata che si sviluppa in due ambienti, epoche e squadre separate. Il Dottore e Clara si separano, il primo tornando col TARDIS alla valle prima dell'alluvione, la seconda nella stazione sottomarina a difendersi dai fantasmi e fare da ponte tra il Dottore il suo fantasma.

L'episodio si apre in modo insolito, soprattutto per essere la seconda parte di un doppio. Abbiamo un monologo del Dottore a beneficio dello spettatore, anzi, proprio diretto a lui, sguardo in camera e quarta parete inesistente. È una scelta atipica e fuori contesto, ma Capaldi la gestisce bene. Altri suoi monologhi si sono rivelati di grande efficacia, come quando ha scoperto il suo aspetto in Deep Breath e durante l'incipit di Listen. Con il monologo viene presentato il "bootstrap paradox", terminologia ripresa dal racconto di R.A. Heinlein per un loop temporale chiuso di cui non si può individuare l'origine. Viene fatto l'esempio classico del cronoviaggiatore che torna nel passato per conoscere un famoso artista ma scopre che questo non ha prodotto nessuna opera, allora ilviaggiatore stesso le pubblica, dato che le conosce tutte. La domanda a questo punto è: chi ha composto quelle opere? La riposta non c'è, o almeno non una risposta univoca e logica, almeno per la nostra esperienza umana.

Chiaramente il monologo si ricollega alla storia, ma solo nel finale. Tornato nel 1980, il Dottore visita la valle che nel futuro era allagata, e conosce qui l'uomo-topo che era il primo fantasma visto nella stazione sottomarina. Si scopre che è un becchino del pianeta Tivoli (quel il mondo di codardi continuamente sottomessi dalle altre razze introdotto in The God Complex [c'è da chiedersi se il Comune di Tivoli abbia intenzione di citare la BBC per diffamazione]). Il tivoliano è lì per seppellire il Fisher King, il loro più recente oppressore, ma è chiaro che come becchino non è un granché perché in realtà il sovrano è ancora vivo, e inizia la serie di omicidi per usare i fantasmi come ripetitori e richiamare il suo popolo. Dopo la morte della sua nuova fangirl, il Dottore ritiene che sia il caso di andarsene, ma il TARDIS non glielo permette. È così costretto ad affrontare il Re Pescatore, già sapendo che morirà, visto che nel futuro è già comparso il suo fantasma...

...o no? Ovviamente la comparsa del fantasma nel finale della puntata precedente non aveva scosso nessuno, perché il Dottore non può morire (o andarci vicino) nel quarto episodio della stagione, ma all'interno della storia il Dottore ha saputo da Clara che il suo fantasma si è manifestato, e questo per lui, nel passato, significa che la morte è già successa, e avverrà presto, nel suo futuro. Il Dottore quindi, a differenza dello spettatore, si muove sapendo di essere destinato a morire. Il confronto con il Fisher King è molto teso, in particolare perché il mostruoso conquistatore sembra avere le idee ben chiare su cosa può o non può permettersi, e su cosa è disposto a fare il Time Lord (subito riconosciuto come tale) per fermarlo. Il Fisher King si dimostra un avversario di alto livello, capace di mettere in soggezione il Dottore e di piegare a suo piacimento le regole della vita e della morte. Ma nonostante questo viene fregato, e finisce annegato sul fondo di quella valle opportunamente allagata dal Dottore. Peccato che la comparsa del Re Pescatore sia così breve, perché sarebbe un villain di grande effetto... ma non credo che lo rivedremo.

E così alla fine il Dottore non è tenuto a morire, ma può semplicemente ripresentarsi nella stazione sottomarina e rimettere i fantasmi in trappola usando il suo ologramma programmato e diretto tramite gli occhiali sonici. Questo è forse il punto della trama che mi è sembrato più affrettato e anticlimatico: avevo già capito da un po' che dalla camera di stasi sarebbe emerso il Dottore e non il Fisher King, ma il fatto che il suo fantasma non fosse davvero un fantasma ma un ologramma mi sembra un trucco abbastanza basso, come quello di far passare un teletrasporto per un raggio distruttore. Allo stesso tempo non mi è del tutto chiaro perché i fantasmi continuassero a diffondere il messaggio nonostante il Fisher King fosse in realtà morto (davvero) da 150 anni.

In tutto questo, quello che forse è più degno di nota è come il Dottore e Clara si comportanto con i loro compagni occasionali. Entrambi sembrano fin troppo disposti a sacrificare loro, pur di salvarsi l'un l'altra. Il Dottore si impegna davvero solo quando è sicuro che Clara sarà la prossima vittima (e per accertarsene ha lasciato che la sua fangirl fosse uccisa), e Clara lancia il ragazzo-interprete in mezzo ai fantasmi quando ha perso il suo collegamento col Dottore. Entrambi vengono accusati dai loro compagni, e alla fine dell'episodio, nonostante la situazione si sia risolta, non si può dire che loro due si siano del tutto redenti. Chi è morto è morto davvero, i fantasmi si dissolveranno col tempo, e il bootstrap paradox non permette di stabilire una vera causa di tutto quanto è successo.

Questo episodio mantiene i toni claustrofobici e cupi del precedente, e lancia forse qualche appiglio per interpretare il seguito della serie: il ministro della guerra, citato di sfuggita come una delle prossime cose che succederanno (tra i quali viene nominato anche Harold Saxon, e non sarà un caso se viene riportata alla memoria la precedente incarnazione del Mater); e il progressivo dottoramento di Clara, il suo diventare sempre più spietata ed egocentrica (chiede al Dottore di venire a salvare lei, perché glielo deve dopo tutto quello che hanno fatto insieme), che potrebbe essere una delle concause che la porteranno alla fine della sua carriera di companion. Il doppio episodio funziona, nonostante qualche piccolo scivolone sul finale, e mi sento di dire per la prima volta di aver visto una storia davvero adatta al personaggio di Capaldi, che sembra scritta appositamente per lui. Alla luce di tutto questo, penso di potergli assegnare un voto 8/10

Coppi Night 27/09/2015 - Jumanji

Oh, era da parecchio che speravo di poter rivedere questo film! Era stato proposto a più riprese nel corso di tante altre Coppi Night, ma non era mai riuscito a spuntarla. Mi piaceva l'idea di rivederlo perché Jumanji è uno di quei film che ricordo dalla mia infanzia e che temevo di aver idealizzato con il passare del tempo. Quindi adesso, a forse dieci o più anni dall'ultima volta che l'ho visto, posso dire che Jumanji è effettivamente un gran film.

Senza stare a ripercorrere la storia, che mi auguro tutti conoscano già, preferisco soffermarmi sugli aspetti che, a vent'anni dall'uscita del film, lo rendono ancora una visione valida e appassionante. Jumanji è prima di tutto un'avventura, e questo lo rende di per sé avvincente. Ma è un'avventura che si basa su una premessa forte e terribile: il gioco che prende il controllo sul giocatore. Abbiamo poi lo scontro tra l'uomo (la civiltà) e la natura (la giungla), e il rapporto conflittuale tra le generazioni. Quest'ultimo credo che sia forse il tema di fondo più importante di tutta la storia, poiché lo si vede sviluppato su più livelli: è facile vedere il conflitto tra il piccolo Alan e suo padre, ma c'è anche quello dei due bambini coi loro genitori (di cui non accettano la scomparsa) e la zia (che cerca di indirizzarli a una vita "normale"), e poi il rapporto tra Alan e il poliziotto ex impiegato della fabbrica di scarpe, che pur essendo della stessa generazione si trovano su piani diversi a causa della scomparsa del bambino. In fondo non è un caso se il cacciatore e il padre di Alan sono interpretati dallo stesso attore. C'è qualcosa di ciclico nel fatto che il ragazzino urli al padre di non voler più avere a che fare con lui, e che il cacciatore si manifesti per uccidere lui (e solo lui). La battuta chiave in tutto questo è quella di Alan-adulto al Peter-scimmia (di nuovo, da una generazione all'altra): "Ventisei anni nella giungla nera e sono lo stesso diventato uguale a mio padre".

Ma tutto questo non emerge a prima vista, non è inserito in modo didascalico e assillante, non ci sono scene che gridino allo spettatore "guardami, sto dicendo cose importanti!". Tutto si incastra nelle dinamiche del gioco, e il meccanismo funziona alla perfezione, con una accurata escalation dei pericoli da affrontare. Si comincia con piccoli animali quasi innocui, pipistrelli, zanzare e scimmie, ma poi si arrivano a scatenare forze naturali ben più distruttive: monsoni, sabbie mobili, terremoti. Gli umani coinvolti nel gioco non sono in competizione ma devono collaborare, e paradossalmente sono costretti ad assicurare la salvezza del gioco stesso. Questo è un'altra metafora davvero forte, se la si vuole leggere, il modo in cui spesso riusciamo (o dobbiamo) giustificare la causa stessa del nostro dolore.

Ma forse davvero, voglio vederci troppo. Al di là di tutto questo, Jumanji è un gran film, appassionante, divertente e ben interpretato (nemmeno Kirsten Dunst a dieci anni risulta odiosa, e dire che è antipatica ora che è adulta), con effetti speciali davvero eccezionali per l'epoca. È anche uno dei pochi film di cui aspetto con curiosità il remake (che si farà, è già stato annunciato per natale 2016), anche se è difficile vedere qualcun altro al posto di Robin Williams. Ma il dubbio glielo concederemo comunque, chissà che una volta tanto questa storia dei prequel/sequel/reboot/remake non funzioni davvero.

Quando Ammaniti inventò la fantascienza

Nel tardo 2015, lo scrittore Niccolò Ammaniti pubblicò il libro Anna, in cui descriveva un'ipotetica società futura dove un virus mortale uccide tutte le persone che hanno raggiunto e superato la pubertà, andando così a originare un mondo composto solo di bambini. Ambientato in Sicilia, Anna narra le avventure di questa giovane e coraggiosa protagonista, che si muove in un mondo feroce popolato solo di bambini e preadolescenti, dove i quattordici anni sono la soglia della morte per tutti. In seguito, quell'opera secondaria di Ammaniti fu riconosciuta come il primo romanzo di un nuovo genere che sarebbe stato chiamato "fantascienza".

Rewind. Tutto questo non è davvero successo. O almeno, non esattamente in questi termini. Perché del romanzo Anna, la cui trama è pressoché quella descritta sopra, nessuno ha dato una definizione in termini di opera di fantascienza. Il che è una dinamica interessante, e tristemente nota, soprattutto qui da noi.

Ok, ammettiamo le nostre colpe. Noi appassionati di fantascienza siamo talmente abituati ad essere ghettizzati che in fondo, tutto sommato, nel nostro ghetto ci stiamo bene. Ci piace, sotto sotto, l'idea di vivere in un ambiente ristretto e impenetrabile, conoscere e delimitare i confini del genere in termini categorici. Quindi quando capita che qualche opera di sf si faccia riconoscere e apprezzare presso il Grande Pubblico, l'atteggiamento è spesso quello del "Ehi, io lo conoscevo prima che fosse famoso". Ecco, un po' di autocritica dovremmo farla, questo sì. Però.

Però è sorprendente come l'etichetta "fantascienza" si accuratamente evitata. Anche questo è un discorso già affrontato altre volte, ma in certi casi l'anomalia è davvero clamorosa. Quando Niccolò Ammaniti ha scritto e proposto Anna per la pubblicazione, com'è possibile che a nessuno sia venuto in mente che si trattasse di un romanzo di fantascienza, o quanto meno basato su una premessa tipica della fantascienza? Ci sono solo due possibilità per cui Ammaniti, il suo editore, i critici e tutti quelli che lo hanno intervistato (da Fazio in giù) non abbiano mai pensato di accostare il termine "fantascienza" al libro: ignoranza od opportunità. Nel primo caso, si può pensare che nessuno di tutti i soggetti coinvolti sappia dell'esistenza della fantascienza, e quindi, di fatto Niccolò Ammaniti ne è diventato l'inventore. Nel secondo, tutti coloro che hanno riconosciuto la fantascienza hanno pensato che non fosse il caso di sottolinearla.

Non so quale dei due sia peggio. L'ignoranza mi sembra ai limiti dell'impossibile, ma non si può escludere che un'idea distorta e/o limitata di cosa sia la fantascienza possa aver indotto genuinamente queste persone a pensare che no, Niccolò Ammaniti per definizione non può scrivere fantascienza, la sua è Letteratura! Se invece si parla di opportunità, per una precisa scelta editoriale/commerciale/artistica non si è voluto accostare il romanzo a un genere che si ritiene inferiore, indegno, perché qui non si sta giocando, si parla di Letteratura!

È qui che si innesca il corto circuito. Perché non si tratta solo di un problema di etichetta: in fondo definire il genere ha un'importanza relativa, vale sempre il discorso che esistono solo due tipi di libri, quelli belli e quelli brutti. Ma negare a un romanzo la sua natura è disonesto nei confronti degli stessi lettori. Perché, se sto leggendo una storia di un investigatore che sta cercando di risolvere un caso di omicidio basandosi sugli indizi che raccoglie sul campo, non dovrei sapere che sto leggendo un giallo? Perché non dovrei essere indirizzato a scoprire altro su quel genere che mi ha appassionato, o viceversa, allontanarmi da cosa mi ha deluso? E perché negare o tacere le origini del tipo di letteratura che si sta proponendo?

Il punto non è se il libro di Ammaniti sia bello o brutto, e nemmeno originale o no. Molti appassionati di sf hanno subito accusato lo scrittore di aver scopiazzato questo o quel racconto, ma sono passati i tempi in cui l'originalità delle idee è un requisito essenziale per la riuscita di una storia. Non ha importanza se Anna vincerà lo Strega (un romanzo di fantascienza che vince lo Strega, ve lo immaginate?) o diventerà un film, o se verrà stroncato dalla critica e disconosciuto dal suo autore. Il problema è che in nessuna fase della sua diffusione, il romanzo verrà identificato con il genere a cui appartiene. Si ripropone così quel doppio standard che, qui da noi, si è già visto ad esempio con autori come Levi e Calvino, e in tempi più recenti, con Avoledo. Si legga pure di fantascienza, ma che non venga nominata. Lode agli autori realisti di una realtà più grande, ma non calchiamo troppo l'accento sugli sforzi di immagianzione, ché la vita vera è questa.

Ma è così difficile riconoscere la fantascienza, quando non è al cinema e non è fatta di invasioni aliene, fini del mondo o supereroi (e anche qui ce ne sarebbe da discutere)? Come si può arrivare ad allontanare dal genere anche un film come The Martian? Dove sta il problema nell'accettare che una forma di letteratura basata sullo sviluppo di certe idee è fantascienza?

Se il problema è quella particella "fanta", che per lunga tradizione nell'ambiente culturale italiano equivale a "roba per bambini", possiamo anche usare il termine inglese di origine, e parlare di science fiction, così forse sarà meno imbarazzante se invece di "fantasticare" si "finge".

Doctor Who 9x03 - Under the Lake

Prima dell'inizio della stagione nove, Steven Moffat aveva annunciato che in questa stagione sarebbero abbondati gli episodi doppi, e che anzi sarebbe stato difficile capire fin da subito se si stava assistendo a una puntata conclusiva o alla prima parte di due. La cosa è abbastanza evidente se i titoli sono affini, come nel caso della doppia premiere (o del prossimo episodio sugli Zygon), ma stavolta è stato più difficile capire che la storia non sarebbe finita. Mi sono trovato però a un paio di minuti dalla fine con troppe questioni ancora aperte, e ho iniziato a pensare: "vuoi vedere che...?" E infatti è andata così, e Under the Lake è finito con un to be continued.

L'episodio ripete una struttura abbastanza tipica in Doctor Who: il Dottore arriva in un luogo isolato, in cui una piccola squadra di persone si trova a confrontarsi con qualcosa di anomalo e da cui non può sfuggire. Che sia una stazione spaziale, un'astronave, un sottomarino, o come in questo caso una base sottomarina, il discorso cambia poco. L'aspetto interessante di questo tipo di storie è che quando sono costruite bene i personaggi secondari non sono solo delle redshirt, ma riescono ad avere un loro spessore e ruolo definito. In Under the Lake la squadra sottomarina (o almeno sottolacustre) non è composta da macchiette, semplice carne da macello di cui l'unica cosa importante è il body count, e questo arricchisce l'episodio.

Questo è anche uno dei rari episodi in cui il Dottore si confronta con qualcosa che non capisce. Nella maggior parte dei casi, pur trovandosi di fronte a un problema, sa con chi ha a che fare e quali sono i suoi punti deboli, mentre stavolta i "fantasmi" sembrano essere davvero una novità, qualcosa da comprendere prima ancora di affrontare. Il fatto che il Dottore sia stato costretto ad adottare la strategia "torno indietro nel tempo per capire di cosa si tratta" è un indice della sua incapacità di comprendere con cosa ha a che fare. È probabile che scopriremo che le entità ectoplasmiche non sono davvero fantasmi, anche se tutti gli indizi raccolti finora non permettono una definizione migliore. D'altra parte in tante altre occasioni in Doctor Who fenomeno apparentemente paranormali si sono poi rivelati come interpretabili in chiave fantascientifica (sort of). Molto interessante è il tema emerso nel finale, di un meccanismo di comunicazione che si insinua nel cervello degli "ospiti" e li usa per ritrasmettere un messaggio: il linguaggio che modella i pensieri di chi lo utilizza è un argomento estremamente complesso, che qui probabilmente sarà appena accennato, ma ha sempre un fascino notevole.

C'è di nuovo da notare una certa incostanza nel rapporto tra il Dottore e Clara, ma devo essere sincero, ora che so che la companion non durerà ancora molto non ci sto facendo più molto caso, mi sono messo l'animo in pace e faccia un po' come voglia. Il Dottore invece si è mostrato piuttosto manipolativo, convincendo gli altri membri del gruppo a partecipare alla sua ricerca, nonostante gli altissimi rischi.

La puntata si conclude con una scena alla "NOT PENNY'S BOAT" e il fantasma del Dottore nell'acqua. Ora, è abbastanza scontato che non sia davvero morto (come probabilmente quelli non sono davvero fantasmi), tuttavia a differenza del supposto cliffhanger di The Magician's Apprentice, qui rimane davvero la curiosità di scoprire come e perché sia successo questo al Dottore. Nel complesso quindi Under the Lake si è rivelata una puntata appassionante e ben strutturata, che prepare il terreno per qualcosa di potenzialmente buono. Per quanto si possa valutare solo la prima parte della storia, gli assegno un voto 7.5/10

Dal libro al film: L'uomo di Marte / The Martian

È il film del momento, e chi sono io per non cavalcare l'onda e approfittare di questa breve finestra di popolarità per un po' di sano SEO? Beh, a dirla tutta in realtà si tratta di un libro che ho letto qualche mese fa e apprezzato, e di cui ero ansioso di vedere la trasposizione cinematografica, confidando che Ridley Scott potesse aver fatto un buon lavoro (secondo me l'utimo che vedremo da parte sua, prima che si dedichi a Prometheus/Alien 2-3-4 e Blade Runner 2-3, ma questo è un altro discorso). Quindi sono andato a vedere subito The Martian, facendo finta di ignorare che il titolo italiano è diventato Sopravvissuto, nonostante il libro L'uomo di Marte fosse ben evidente in molte librerie e sarebbe stato molto più facile da associare al film.

Come sempre, ci vuole cautela nell'accostare libri e film derivati, perché media diversi utilizzano linguaggi diversi, pertanto la fedeltà del cinema alla carta non è mai il criterio principale. Quello che è più importante è l'aderenza allo spirito del libro, e quello certamente è ben rispettato. Il messaggio di L'uomo di Marte, se proprio vogliamo andare a scavare sotto la superficie di avventura e sopravvivenza e geekitudine, è una celebrazione dell'ingegno e ingegnosità umana, un inno alla ragione e al positivismo (non solo "ottimismo"), e anche una dichiarazione d'amore per lo Spazio. Mark Watney, pur sapendo di essere l'unico essere umano su un pianeta, senza possibilità di soccorso per almeno quattro anni, decide di non lasciarsi andare, ma impiegare tutte le sue risorse e conoscenze per non morire. Come lo sentivamo dichiarare già nel trailer: I'm going to science the shit out of this (epica frase purtroppo intraducibile, e che nella versione doppiata perde molta della sua grinta).

In questo senso The Martian riesce a trasporre in modo effiace L'uomo di Marte, anche se per forza di cose è obbligato a tralasciare molti particolari. Nel libro infatti le descrizioni delle strategie adottate da Watney (calcoli, principi fisici e chimici, lavori di ingegneria e botanica, programmi di viaggio) sono molto più approfondite, e costituiscono una buona parte del gusto finale della storia, almeno fino a circa metà romanzo. È ovvio che riportare numeri e impartire lezioni di chimica su schermo sarebbe stato noioso e forse anche antipatico, per cui si è opportunamente scelto di far vedere Mark in azione, facendo intendere che ogni sua mossa è studiata. Da questo punto di vista forse il film perde una parte di quell'attrattiva geek che il libro mantiene, ma d'altra parte si apre a un pubblico più vasto e meno specializzato.

Due aspetti di The Martian a mio avviso sono stati gestiti meglio che nel libro. Il primo è la storia parallela che si svolge principalmente alla NASA, con le varie squadre che inizialmente ritengono che Watney sia morto e in seguito si impegnano a trovare un modo per salvarlo. Nel libro, l'introduzione dei personaggi sulla Terra avviene dopo circa un terzo di narrazione in prima persona del protagonita, con un brusco cambio di prospettiva che sulle prime è vagamente disorientante, mentre nel film conosciamo subito le persone che seguiranno Watney a distanza. In secondo luogo, i compagni di missione di Mark, che lo hanno abbandonato creduto morto su Marte, ricoprono qui un ruolo più centrale e a loro modo eroico. Intendiamoci, anche nel libro il salvataggio e l'ammutinamento viene deciso da loro, quindi le loro azioni sono comunque eroiche, ma nel libro non emerge davvero la loro determinazione, mentre vederli in azione, soprattutto nelle fasi finali del film, rende loro giustizia, mostrandoli come personaggi completamente all'altezza del loro compagno in termini di competenza, coraggio, e ottimismo. In generale quindi il film riesce ad allargare il focus della narrazione da Mark Watney agli altri umani coinvolti, e questo è sicuramente positivo.

Se vogliamo poi parlare della rigorosità scientifica (visto che ho già sentito qualcuno che ha visto il film lamentarsi che non è possibile coltivare patate su Marte), rimando in prima battuta al libro, nel quale come già dicevo ogni mossa studiata da Watney è ben documentata, e resa per lo meno plausibile. Nel film, per forza di cose qualche concessione si è dovuta fare, e una su tutte è la gravità: sembra che su Marte si possa camminare e spostarsi e far esplodere le cose come sulla Terra, ma le cose sarebbero un po' diverse. Mark Watney dovrebbe procedere a goffi balzelli, e molte delle sue operazioni sarebbero parecchio rallentate rispetto a come le abbiamo viste. Leggendo il libro questo viene fatto presente e lasciato all'immaginazione del lettore, ma sarebbe stato troppo difficile girare quasi la totalità del film simulando la gravità ridotta. Scott lo sa e lo ha fatto presente, quindi diamogli almeno atto di onestà. In compenso le sequenze a zero-g sull'astronave Hermes sono buone, ma in proporzione sono davvero poche.

Concludendo, The Martian è senza dubbio un buon film, appassionante, leggero ed estremamente motivational. Il breve epilogo (assente nel libro) rafforza ulteriormente quel messaggio positivo, e tutto questo, in concomitanza con l'annuncio della presenza di acqua liquida su Marte, forse in prospettiva potrà davvero risultare determinante per incoraggiarci a fare quel passo, e arrivare davvero sul nostro vicino di orbita. Il che non sarebbe un risultato da poco, se si considera che Andy Weir parte come self publisher.

DTS live @ Stranimondi - Milano 10 settembre

Vi ho già parlato di Stranimondi, la manifestazione dedicata alla narrativa d'immaginazione (fantasy, fantascienza, horror, weird) che si terràa a Milano il 10 e 11 ottobre. L'evento prevede la presenza di numerosi (piccoli e microscopici) editori del fantastico, ospiti italiani e internazionali, e ha un programma fitto di presentazioni, panel, dibattiti.

Tra i numerosi appuntamenti in calendario, sabato alle ore 15:30 presenteremo con Zona 42 Dimenticami Trovami Sognami, concentrando in una mezz'ora di tempo tutto quanto ci possa venire in mente per appassionare un pubblico smaliziato come quello che troveremo qui. Quindi cercheremo di dare del nostro meglio, ma al di là della presentazione di DTS, la partecipazione a Stranimondi sarà sicuramente un'occasione per conoscersi, confrontarsi e discutere del nostro piccolo (strano) mondo.

Peraltro, lo stesso sabato alle 18:30, salirò nuovamente sul palco, ma stavolta come relatore per Andrea Di Meo, a cui farò da spalla per la presentazione di SB 15395. Quindi ci sono tanti motivi per partecipare, che potete scoprire meglio sul sito di Stranimondi, la pagina e il gruppo facebook appena nato proprio per fare da collegamento tra la manifestazione, i lettori e gli editori.

Quindi ci vediamo a Milano per uno spritzino? Tac!